mercoledì 26 ottobre 2016

Leopardi _ La Ginestra - Analisi



Analisi del testo
La prima strofa insiste sull’opposizione deserto / ginestra aridità / profumo; il paesaggio è decisamente anti idillico e si specifica in tre quadri 1) il “formidabil monte”,  concretizza l’immagine della potenza distruttiva della natura; “le erme contrade” intorno a Roma, immagine di desolazione e abbandono che richiama l’azione corrosiva del tempo e il perire irrimediabile di tutte le cose; le “ceneri infeconde” e l’empia tratta lava immagine di morte che rendono oggettivo il destino delle creature.
La ginestra invece è così connotata: contenta dei deserti, li abbellisce; è sempre compagna di afflitte fortune; è gentile, in opposizione alla spietata minaccia del vulcano; commisera i danni altrui, consola la desolazione del deserto con il suo profumo. La ginestra assume quindi un denso valore simbolico: come indicano gli attributi elencati, rappresenta essenzialmente la pietà verso la sofferenza degli esseri, perseguitati dalla natura. È possibile scorgere una segreta identificazione tra Leopardi e la ginestra (li accomuna anche il connotato della solitudine). Nel fiore il poeta proietta soprattutto la sua pietà per le vittime della natura; viene così anticipato sin dalla prima strofa, nel simbolo del fiore, il motivo della solidarietà fra gli uomini, che sarà proposto in forma argomentativa più avanti. Ma c’è ancora un altro terreno di identificazione tra il fiore e il poeta. La ginestra rappresenta la vita che resiste a ogni costo al deserto, alla potenza devastante della natura; nel fiore si proietta perciò anche quell’atteggiamento coraggioso, non rassegnato di opposizione e di sfida alla natura nemica, che caratterizza l’ultimo Leopardi.
Nell’ultima parte della strofa si ha un passaggio brusco dal motivo lirico a quello polemico: “A queste Piagge …” con uno stacco forte e netto.
La polemica antireligiosa occupa la seconda  e la terza strofa. Il ritorno di concezioni religiose e spiritualiste è sintomo di vigliaccheria, conformismo, interesse e opportunismo. A questi atteggiamenti che ritiene vili e spregevoli, contrappone la propria figura eroica e solitaria, con un atteggiamento combattivo e un orgoglio della propria nobiltà spirituale che sono propri delle opere di quest’ultimo periodo.
Nella terza strofa il poeta definisce la vera nobiltà spirituale, che consiste nel guardare coraggiosamente in faccia il destino comune e nel dire il vero sulla condizione infelice ed effimera dell’uomo, mostrandosi forte nel soffrire e fraternamente solidale con gli altri uomini. A questo punto si colloca una svolta fondamentale nel pensiero leopardiano. Nelle precedenti opere in cui polemizzava contro l’ottimismo progressista dei suoi tempi, Leopardi si limitava a posizioni critiche negative distruggendo i miti ingannevoli degli avversari, rivelando il desolato vero. Qui invece propone con vigore una parte costruttiva, una sua alternativa alle idee che combatte. Il pessimismo assoluto non induce Leopardi alla rassegnazione e all’inerzia di fronte alla potenza ostile della natura, né all’indifferenza verso i mali dell’umanità: il suo è un pessimismo combattivo ed eroico, ma anche aperto alla solidarietà verso gli altri uomini. In alcuni scritti precedenti Leopardi negava che il cosiddetto progresso potesse assicurare sia la felicità, sia la giustizia; le stesse leggi naturali prescrivono che trionfi sempre, in ogni forma di governo, la forza e l’iniquità sulla virtù e la giustizia. Nella Ginestra il poeta continua ad escludere la felicità, ma afferma la possibilità di un progresso che assicuri una società più giusta con rapporti più umani tra gli uomini. Alla falsa idea di progresso diffuso dalle ideologie ottimistiche del suo tempo, che consisteva nel mito di una nuova età dell’oro garantita dalle riforme politiche delle conquiste tecnologiche, che avrebbero assicurato la pace, l’abbondanza dei beni materiali e il dominio sulla natura, contrappone quello che per lui è il progresso autentico di tipo civile e morale. Questo tipo di progresso non si fonda su un’ingannevole ottimismo, ma proprio sul pessimismo, sulla lucida consapevolezza della tragica condizione dell’umanità. La coscienza dell’infelicità e miseria umana spingerebbe gli uomini a coalizzarsi tra di loro contro la comune nemica, portando alla solidarietà reciproca e alla fraternità. Questa società più giusta e civile avrebbe un solido fondamento oggettivo in un bisogno reale degli uomini, quello di salvaguardare la propria sopravvivenza; tale progresso non assicurerebbe affatto agli uomini la felicità, che è impossibile, ma garantirebbe una società più giusta e civile, in cui gli uomini non sarebbero più aggressivi gli uni contro gli altri come belve. Non ci sarà dunque l’infelicità aggiunta che nasce dall’ostilità degli altri uomini, anzi l’uomo sarà soccorso e confortato dai suoi simili quando la natura malvagia si accorrerà contro di lui. Compito dell’intellettuale è dunque diffondere la consapevolezza del vero, indicando il vero nemico contro cui combattere. Il poeta ha compiuto un generoso sforzo per volgere in positivo il suo pensiero, per fondare sulla base del suo pessimismo un’idea non  illusoria di progresso e di civiltà.
La quarta strofa ha uno stacco netto dalla precedente: si apre con uno scorcio paesaggistico, lo stesso della prima strofa, individuato da un colore che evoca immagini luttuose. Qui è presente anche la figura del poeta; non ci sono più i filtri che comparivano ad esempio in “A Silvia”: L’io è immerso nella realtà esterna, non la sfugge più, ma la affronta eroicamente. È una realtà scabra, orrida, funebre, non più trasfigurata da alcuna illusione, ma rappresenta in tutta la sua tragica terribilità la vera condizione dell’uomo. Da questo particolare risalta la poetica nuova, non più idillica dell’ultimo Leopardi, che vuol fare poesia non più con il caro immaginar ma interamente con il vero.
La prospettiva si allarga poi alla volta stellata, che non evoca più la memoria delle favole infantili, ma una vasta meditazione sulla nullità della terra e dell’uomo nell’universo. Non è più l’infinito dell’immaginazione, ma l’infinito del vero.
Il ritorno polemico porta a due atteggiamenti entrambi presenti e strettamente uniti: il riso per la stoltezza e la pietà per le sofferenze dell’umanità.
La quinta strofa riprende il motivo della prima, la potenza distruttiva della natura.
Nella sesta è centrale il motivo del tempo, il contrasto tra la variabilità del tempo umano e l’immobilità di quello della natura. Mentre il tempo umano scorre vario, trasformando incessantemente le cose, la natura maligna incombe immutata, affermando la sua minaccia. La natura ignora i ritmi del tempo umano, con la sua eterna minaccia.
Nella conclusione il motivo è esposto in forma riflessiva: la natura sta “ognor verde” mentre cadono i regni, passano i popoli e linguaggi. Una delle sentenze definitive, concise e lapidarie tipiche del poeta chiude le sue argomentazioni “l’uom d’eternità s’arroga il vanto” in cui risuonano insieme scherno e commiserazione.
Nell’ultima strofa, in rispondenza circolare con la prima, ritorna in primo piano la ginestra. Del fiore viene richiamato il significato simbolico, la pietà per la desolata condizione delle creature; tuttavia in seguito acquista nuovi significati: la ginestra diviene un modello di comportamento nobile ed eroico per l’uomo. La fragile pianticella dovrà inevitabilmente piegare il capo dinnanzi all’onnipotenza della natura distruttrice, ma questa sconfitta non cancella la sua dignità: la ginestra non ha mai piegato codardamente il capo a supplicare l’oppressore, né l’ha diretto con folle orgoglio per eguagliarsi nel cielo, né mai ha voluto imporre il suo dominio sulle altre creature. Nella ginestra si proietta dunque l’immagine ideale della nobiltà dell’uomo, che il poeta aveva delineato nella terza strofa.

martedì 25 ottobre 2016

Dante - Vita Nova



Vita Nova
La Vita nova si presenta come ricapitolazione di un’esperienza passata, e al tempo stesso come ricostruzione del suo significato profondo: un’esperienza sentimentale e intellettuale insieme, di vita di poesia, così unite tra loro da non potersi distinguere. Da qui le discussioni tra chi interpreta la Vita nova come reale documento autobiografico e coloro che la ritengono una pura trascrizione simbolica di idee e sentimenti. Ma il libro non è né una cosa né l’altra, ed è difficile da penetrare con la nostra mentalità di lettori moderni, così distanti dall’universo culturale del Medioevo. Nella Vita nova  è probabilmente contenuta una trama di esperienze reali, ma Dante mira soprattutto a cogliere i significati segreti che stanno al di là di esse, e a comporli in una vicenda esemplare valida universalmente, sottratta ai limiti del tempo e dello spazio; deriva da qui il carattere irrealistico della narrazione dantesca, che vanifica ogni tentativo di leggerla in chiave moderna come “romanzo” psicologico. Luoghi e persone perdono la loro fisionomia concreta e individuale, sfumando in un’estrema indeterminatezza. Tra i fatti della vita quotidiana viene operata una rigorosa selezione, che lascia filtrare solo pochi gesti e azioni, stilizzati e come rarefatti, privati di ogni urgenza fisica immediata, ridotti a pure cifre immateriali: incontri, sguardi, saluti, gentili colloqui, solitarie passeggiate, lacrime, sospiri. Ne deriva l’impressione di un mondo diverso da quello reale, impalpabile ed evanescente, immerso come in un’atmosfera stranita, di sogno. Tant’è vero che alle vicende reali si mescolano spesso autentici sogni e visioni, senza che si crei alcun contrasto, alcuna sfasatura di tono e di atmosfera.
Il libro è suddiviso in tre parti: nella prima si tratta degli effetti che l’amore produce sull’amante; nella seconda si ha la lode della donna; nella terza, la morte della “gentilissima”. A queste tre parti corrispondono tre diversi stadi dell’amore. Nel primo esso rientra ancora pienamente nei canoni dell’amor cortese, secondo cui l’amante poteva sempre sperare una ricompensa al suo amore da parte della donna: il saluto era divenuto appunto il simbolo, estremamente sublimato, di questo appagamento esteriore e materiale. La negazione del saluto fa scoprire a Dante che la felicità deve nascere non dall’appagamento esterno, ma tutta dentro di lui dalle parole dette in lode della sua donna. È questo il secondo stadio dell’amore. Egli non ama più la donna per averne qualcosa in cambio, ma l’amore diviene fine a se stesso: l’appagamento consiste solo nel contemplare e lodare la creatura altissima, che è in terra come un “miracolo”. A questa scoperta, che avviene a metà dell’opera, al capitolo diciotto, Dante attribuisce un valore decisivo. Nel XXIV del Purgatorio afferma che la canzone Donne che avete intelletto d’amore, prodotto di quella scoperta, dà inizio alle “nove rime”, cioè una nuova maniera di poetare. In che cosa consiste tale novità? Questo modo di intendere l’amore ha una stretta affinità con la visione dell’amore mistico elaborato dai teologi medievali precedenti Dante: è l’amore dei beati in cielo, che non mira a ricompense materiali e trova la sua beatitudine solo nella contemplazione della lode di Dio. L’amore per Beatrice si è innalzato a un livello ben superiore a quello cortese dei trovatori. L’amore non è più una passione terrena, sia pur sublimante e raffinata, non si limita ingentilire l’animo: è un aspetto di quell’amore di cui parlano mistici e teologi , la forza che muove tutto l’universo che innalza le creature sino a ricongiungersi con Dio. Vengono superati anche i termini dello stilnovismo precedente: Guinizzelli e Cavalcanti cantavano la donna come miracolo e dono di Dio, ma l’amore era solo un processo discendente, da Dio al poeta; processo ascendente si arrestava la donna (poeta > donna), al di sopra della quale per l’amante non vi poteva essere nulla. Era inevitabile quindi un conflitto tra amore per la donna l’amore per Dio. In Dante il conflitto è superato: il processo ascendente torna sino a Dio proprio per il tramite della donna. La salute che proviene dal suo saluto è proprio la salvezza dell’anima. L’amore per la donna innalza l’anima sino alla contemplazione del cielo: ed è questo  Il terzo stadio dell’amore nella Vita nova, perfettamente identificabile nell’ultimo sonetto dell’opera Oltre la spera che più larga gira in cui amore mette nel pensiero del poeta un’intelligenza nuova, che gli consente di contemplare Beatrice nella gloria dell’Empireo. Quando Guinizzelli e Cavalcanti lodavano la donna come angelo del cielo non si trattava che di un’iperbole retorica, che rientrava in una ben precisa convenzione poetica. Nella Vita nova invece l’elemento inedito della prosa che accompagna le liriche, rivelando il senso profondo unitario di tutta la vicenda, dimostra che non si tratta di semplici metafore poetiche, e risponde della serietà di tutto il discorso.

giovedì 13 ottobre 2016

Leopardi - A Silvia - Analisi del testo



A Silvia - Analisi del testo
La lirica ha una costruzione rigorosamente simmetrica. La prima strofa ha una funzione proemiale, e introduce il tema: l’immagine di Silvia che emerge dalla memoria. La seconda la terza propongono, sempre rievocando il passato due situazioni parallele: le illusioni giovanili di Silvia e quelle del poeta, che si contrappongono alla faticosa realtà quotidiana, rispettivamente alle “opere femminili” e alle “sudate carte”. La quarta strofa è un commento desolato alla delusione di quelle speranze. La quinta e la sesta, in simmetria con la seconda alla terza propongono nuovamente un parallelo tra Silvia il poeta: la giovane è morta prima di vedere il fiore dei suoi anni; così la speranza del poeta muore prima che egli possa godere della giovinezza; e di tante speranze resta solo la prospettiva della “fredda morte”. La lirica non propone una vicenda d’amore, un preciso rapporto sentimentale tra i due giovani. La situazione è lasciata nel vago nell’indeterminato; ciò che unisce Silvia e il poeta, a distanza, senza che tra loro ci sia alcun contatto, è solo il parallelismo tra due condizioni: la giovane del popolo e il giovane poeta aristocratico sono associati, al di là della distanza dei loro due mondi, solo dalla condizione giovanile, dalle sue speranze dai suoi sogni, poi dalla delusione.
Non solo la situazione ma tutta la lirica è caratterizzata dalla vaghezza. La figura femminile è poverissima di indicazioni concrete; l’immagine di Silvia, in apertura, vive solo di due particolari, quello fisico degli occhi e quello psicologico (atteggiamento lieto e pensoso); questa estrema sobrietà di indicazioni risalta soprattutto se riferita al codice letterario della raffigurazione della bellezza femminile, quello della tradizione petrarchista, che insiste minuziosamente su una serie di particolari fisici. Ancor più vaga è la raffigurazione del mondo esterno, l’ambiente che circonda le due figure: il paesaggio primaverile è poverissimo di indicazioni concrete. Gli oggetti sono evocati quasi solo con il semplice nome (stanze, vie, palazzo, mare …). Non vi sono descrizioni: solo pochi aggettivi estremamente sobri, quasi spogli (quiete, odorose, sereno, dorate). Il mondo esterno è privo di urgenza fisica, materiale, sensuale: è come assottigliato e rarefatto.
Questa sobrietà della raffigurazione, questa estrema vaghezza, non sono casuali: corrispondono a una poetica leopardiana, la tendenza al vago e indefinito. Lo spunto per la poesia è sicuramente un dato reale e vissuto: ne abbiamo la prova nei ricordi d’infanzia e dell’adolescenza. Ma questa realtà vissuta, per essere assunta in poesia, è sottoposta, per così dire, a una serie di filtri che la depurano, le tolgono quell’urgenza materiale che è propria dell’arido vero.
1 - Innanzitutto un filtro fisico: il mondo esterno è percepito da Leopardi attraverso la finestra della casa paterna, che lo allontana e lo separa dal mondo, impedendo il contatto immediato con la realtà L’io nella poesia di Leopardi non è mai immerso nel mondo, ma sempre separato da esso da una distanza, da una sorta di diaframma: questo diaframma è in genere la finestra; Leopardi percepisce sempre il mondo dal chiuso della propria stanza, dove studia, pensa, scrive, in definitiva, dal chiuso del proprio mondo interiore: la finestra è come il confine simbolico, che mette in contatto due mondi, interiore ed esteriore, l’immaginario e il reale. La sua funzione è simile a quella della siepe dell’infinito.
2 - Il secondo filtro è costituito proprio dall’operazione dell’immaginazione. Il dato fisico del canto delle figlie del cocchiere non è tanto percepito con i sensi, quanto appunto, trasfigurato attraverso l’immaginazione; nel rapporto con il reale si determina una sorta di doppia visione, come Leopardi chiarisce nello Zibaldone proprio nel novembre di quell’anno 1828: “All’uomo sensibile immaginoso, che viva come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo, immaginando, il mondo gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; potrà cogliere anche un suono d’una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello, il piacevole delle cose” ma il canto della giovane suscita l’immaginazione perché è già di per sé di un tipo particolare: è una di quelle sensazioni vaghe indefinite che Leopardi elenca nello Zibaldone come molto suggestivi, perché danno l’illusione dell’infinito.
3 - Un terzo filtro è la memoria: il ricordo per L. ha funzione analoga a quella dell’immaginazione, per rendere indefinite e poetiche le cose; nel caso di A Silvia, la memoria richiama un particolare del passato, il canto della ragazza, trasfigurandolo. Ma quel particolare del mondo esterno era stato già, a quel tempo, trasfigurato dall’immaginazione, dalla “visione”; non si ha solo la memoria, ma la memoria di un’illusione: le due facoltà simili sommano le loro funzioni.
4 -Ma si aggiunge un filtro letterario: le immaginazioni suscitate dalla suggestione indefinita del canto della ragazza sono anche memorie poetiche; la doppia visione è anche la sovrimpressione sul reale del ricordo di passi poetici particolarmente cari: in questo caso, sulla figura di Silvia che canta mentre è intenta al telaio si sovrappone il ricordo virgiliano del canto di Circe che giunge ai Troiani di lontano nel silenzio notturno mentre veleggiano dinanzi alle coste italiche “La figlia del sole fa risuonare le selve del suo perpetuo canto, percorrendo col pettine sonoro le sottili tele.”
5 - Ma vi è anche un filtro filosofico: l’illusione recuperata dalla memoria non può più essere vissuta immediatamente, ingenuamente, come negli anni giovanili. Nel tempo che si è frapposto, vi è stata la presa di coscienza filosofica del “vero”, l’approdo alla visione fermamente pessimistica del mondo. L’illusione risorge comunque, prepotentemente: ma, a differenza degli anni della giovinezza è sempre accompagnata dalla consapevolezza del vero, dell’infinita vanità del tutto. La memoria richiama dal passato immagini di giovinezza, bellezza, gioia; ma quelle immagini si proiettano come su uno sfondo d’ombra. Anche per questo nella poesia leopardiana la realtà appare così rarefatta e smaterializzata. Non solo quelle immagini sono fantasmi dell’immaginazione della memoria, ma sono ulteriormente assottigliate dalla consapevolezza del fatto che tutto è nulla, per questo la poesia leopardiana è così povera di determinazioni concrete, giocata sul non dire, solo poco oltre, e sarebbe il silenzio, la pagina bianca. La poesia è come una sfida ostinata al silenzio e al nulla.
Per questo Leopardi è sì il poeta del negativo, del nulla, ma è anche il poeta della vita. Il suo pessimismo non ha le sue radici originarie in un’attrazione morbosa del nulla, in un accarezzamento compiaciuto della sconfitta, della rinuncia a vivere, della dissoluzione, della morte. Il dato primario dell’esperienza leopardiana, al contrario, è un bisogno di pienezza vitale, di vita intensa ed energica, di gioia. Il pessimismo nasce solo come formazione reattiva, dalla delusione di queste aspirazioni profonde. E non si manifesta come rassegnazione lamentosa, ma come rivendicazione vigorosa del diritto alla felicità, come protesta generosa ed eroica, per quanto disperata, contro tutte le forze ostili che soffocano quel bisogno costitutivo dell’uomo. L’idea del nulla non è abbandono irrazionale, ma lucida e ferma la conquista della ragione: e a essa sono sempre contrapposte le ragioni della vita. Questo spiega la sostanziale unitarietà della personalità leopardiana: non vi sono due Leopardi contraddittori fra loro, l’oscuro amante della morte e il poeta eroico titanico, ma due atteggiamenti diversi a partire da un’unica disposizione originaria, vitale ed energica, il generoso slancio verso l’illusione e l’esplorazione coraggiosa del vero. A Silvia si chiude con l’immagine della fredda morte, ma per l’intero componimento il poeta evoca nonostante tutto dallo sfondo d’ombra del nulla, le immagini della vita e della gioia, come protesta contro la forza maligna della natura che le ha negate all’uomo. Per questo appare oggi inaccettabile l’immagine romantica, che risale a De Sanctis, dove L. è diviso dal conflitto cuore-intelletto, il cuore proteso verso l’illusione e l’intelletto negatore, distruttore: l’aspirazione alla pienezza vitale non è un impulso oscuro e irrazionale ma rivendicazione consapevole, posizione lucidamente, razionalmente perseguita dal poeta, nella sua protesta eroica che ha le basi nelle conquiste della sua filosofia.

lunedì 10 ottobre 2016

Infinito - Analisi del testo



L'infinito
1819 - Primo dei componimenti aventi il nome di idilli.
In questo componimento sono assenti i temi del  dolore personale, gli spunti pessimistici e polemici. Massima riduzione della rappresentazione della natura. Sono assenti  considerazioni spiritualistiche o materialistiche. L’anima di fronte all’infinito è attratta e insieme smarrita ; “sempre caro”indica una consuetudine “dolce” un tono affettivo.
Il componimento si riconduce alla teoria del piacere. L’esclusione alla vista di un paesaggio reale dà luogo all’immaginazione  perciò si esige una vista limitata. Il lavoro dell’immaginazione è rappresentato con novità e immediatezza. Non si sofferma su entità concrete ma su aspetti che sembrano rifiutare ogni formalizzazione.
Il movimento ritmico all’interno dell’endecasillabo è proprio delle canzoni della maturità
“La poesia si articola in due momenti, corrispondenti a due distinte sensazioni di partenza. Nel primo momento (versi uno - otto) l’avvio è dato da una sensazione visiva, o, per dir meglio, dall’impossibilità della visione: la siepe che chiude lo sguardo, impedendo a esso di spingersi sino all’estremo orizzonte. Impedimento della vista, che esclude il “reale”, fa subentrare il “fantastico”: il pensiero si costruisce l’idea di un infinito spaziale, cioè di spazi senza limiti, immersi in silenzi sovrumani e in una profondissima quiete. Nel secondo momento (versi 8 -15) l’immaginazione prende l’avvio da una sensazione uditiva, lo stormire del vento tra le piante. La voce del vento, un dato presente, effimero, è paragonata ai silenzi prima immaginati, e richiama così alla mente l’idea di un infinito temporale (l’eterno), a cui si associa successivamente il pensiero delle epoche passate svanite, e dell’età presente, col suo carattere ugualmente effimero, destinato anch’esso svanire. La lirica ha una sua durata temporale interna, un suo andamento narrativo: le due sensazioni, e le due immaginazioni da esse suscitate, sono in successione tra loro, anzi, scaturiscono l’una dall’altra; questa successione narrativa non si riferisce però a un evento unico, bensì a un’esperienza che si suppone ripetuta più volte nel tempo. Vi è anche un passaggio psicologico: l’io lirico, dinanzi alle immagini interiori dell’infinito spaziale, prova come un senso di sgomento; ma nel secondo momento l’io si annega nell’immensità dell’infinito immaginato (spaziale e temporale), sino a perdere la sua identità; e questa sensazione di naufragio dell’io è piacevole, dolce. Se la coscienza rappresenta all’uomo il vero, cioè la sua necessaria infelicità, lo spegnersi della coscienza individuale dà una sensazione di piacere, garantisce una forma di felicità. Tra lo spaurarsi del cuore e la dolcezza del naufragio non vi è però contrasto, come potrebbe apparire a prima vista: essi infatti non sono che i due aspetti di quell’ “orrore dilettevole” che, secondo il sensismo, è suscitato dall’immaginazione dell’infinito” Baldi Giusso Razzetti Zaccaria Dal testo alla storia dalla storia al testo
nota bene:
o   il componimento non può essere letto in chiave mistico religiosa; l’infinito creato è del tutto soggettivo;
o   i due momenti corrispondenti alle due diverse esperienze (infinito spaziale e infinito temporale) occupano ciascuno sette versi e mezzo; il verso otto è diviso in due parti da una forte pausa al centro ;
o   il senso dell’esperienza unitaria, al di là dei due momenti in cui si articola, è resa della continuità metrica e sintattica che percorre tutto il componimento: nessun verso tranne il primo e l’ultimo, è isolabile sintatticamente, perché il discorso continua sempre nel verso seguente.