Terza guerra punica
Alla fine della seconda guerra
punica Cartagine non era più una minaccia per Roma, ma in seguito tornò ad
arricchirsi con la ripresa dei commerci. Questa situazione indusse i Romani
a distruggere definitivamente la città.
A favore di questa soluzione si schierarono sia i tradizionalisti capeggiati
dal censore Marco Porcio Catone, sia il ceto affaristico dei cavalieri.
Il pretesto per l'aggressione fu
offerto da una contesa di confine tra Cartagine e il re dei numidi Massinissa,
l'antico alleato di Scipione che a novant'anni governava ancora energicamente
il proprio popolo. Dato il trattato stipulato tra cartaginesi e romani,
Cartagine non poteva rispondere con le armi ai Numidi senza un permesso da
parte di Roma. Quando i Cartaginesi furono costretti a difendersi con le armi
violando il patto, i Romani ne approfittarono stabilendo che si era verificato
il casus belli.
I Cartaginesi erano disposti a
qualsiasi riparazione per evitare la guerra, ma i Romani non accettarono alcun
patto. Nonostante la schiacciante superiorità militare dei Romani, passarono tre
anni prima che si impadronissero di Cartagine. L'assedio si concluse nel
146 a. C sotto la guida di
Scipione Emiliano (figlio adottivo di Scipione l'Africano). I superstiti
cartaginesi vennero venduti come schiavi e sulle rovine di Cartagine venne sparso
il sale a segnalare che quello doveva essere un luogo maledetto, mai più
abitato. Il territorio cartaginese divenne provincia romana.
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