Composto tra l'ottobre del 1829 e l’aprile del 1830, fu pubblicato per la prima volta
nell'edizione dei Canti del 1831 (pur
essendo l'ultimo dei canti recanatesi del 29-30 per cronologia di composizione,
in quella edizione e nella successiva napoletana del 35, fu collocato prima
della Quiete e del Sabato).
L’idea del canto fu suggerita a L. da un articolo del Journal des savants (1826),
da cui viene a sapere che i Pastori dell'Asia centrale trascorrevano le notti
seduti su una pietra guardando la luna e improvvisando parole tristissime con
musiche altrettanto tristi.
Metro: strofe libere di endecasillabi
e settenari
Il poeta qui non parla in prima persona: il canto è messo in bocca a un uomo
primitivo, semplice e ingenuo. Nella prima fase del suo pensiero (pessimismo
storico) Leopardi riteneva i primitivi più vicini alla natura, inconsapevoli
dell’ “acerbo vero”, fanciulleschi e fantasiosi, quindi più felici dell'uomo
moderno. Qui invece il pastore è filosofo come gli uomini civilizzati e sente
fortemente la propria infelicità e quella universale: è l'indizio più chiaro
del passaggio al pessimismo cosmico, che concepisce l’infelicità come propria
dell'uomo di tutti i tempi, luoghi e condizioni.
Il canto si distingue nettamente
dagli altri grandi idilli
(cosiddetti) perché non si fonda sulla memoria, sul desiderio del “caro
immaginar” e sull'espressione dei sentimenti; è invece una lucida e ferma riflessione che, partendo da
interrogativi elementari, coinvolge grandi problemi metafisici: è quindi
poesia completamente filosofica, fondata sul vero. Il linguaggio perciò anche
se presenta essenzialità e purezza proprie
di questo periodo della poesia leopardiana, non ha il tono affettuoso che nasce dall'illusione.
Anche il paesaggio è diverso: non
è quello idillico e familiare dell'immaginazione giovanile, recuperato dalla
memoria, ma è un paesaggio astratto. continua la funzione tipicamente
leopardiana dello spazio sconfinato e del tempo infinito; non è però un infinito
creato dall'immaginazione: è invece contemplato dalla ragione; nella
contemplazione non c’è dunque riscatto, naufragare della coscienza: la coscienza resta vigile, è sempre presente e
rimane in essa la percezione della sofferenza e della mancanza di senso
dell'universo. Per queste caratteristiche il Canto notturno, chiudendo la stagione dei “grandi idilli”, fa già
presentire la stagione successiva della poesia leopardiana, quella del Ciclo di
Aspasia, una poesia nuda e severa, di puro pensiero.
Silenziosa: l'attributo sembra esprimere la consapevolezza del pastore che
il suo interrogare resterà senza risposte.
L’umanizzazione della luna si può rilevare in più di una scelta
lessicale, richiamando anche il ruolo di
divinità attribuito alla luna dalla mitologia classica.
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