Leopardi - A sé stesso - analisi del testo
Fu composto probabilmente nel 1835 e pubblicato nell'edizione dei Canti dello
stesso anno. L’occasione esterna fu probabilmente la delusione a cui andò incontro l'amore per
Fanny Targioni Tozzetti, la scoperta della vera realtà della donna amata, che
negava l'immagine che il poeta se ne era fatta, disinganno che fu analizzato in
Aspasia.
Metro endecasillabi e settenari con rime liberamente ricorrenti
Il componimento conclude il ciclo di Aspasia. Si afferma la scomparsa dell'inganno
estremo, l'amore, che era stato cantato nel suo momento culminante, nel Pensiero dominante (componimento nel
quale il poeta aveva esaltato la passione) e in Amore e morte. La poesia segna perciò il distacco definitivo dalla
fase giovanile dell'illusione, ancora recuperata attraverso la memoria nei Canti
pisano - recanatesi del 28-30. è spento perfino il desiderio dei “cari
inganni”. La negazione dell'illusione è ferma e perentoria; di fronte al vero tuttavia
non c'è più un atteggiamento contemplativo: come è proprio di questa fase, compare
un atteggiamento agonistico ed eroico, che si esprime nel disprezzo sia verso
quel se stesso che ha ceduto ancora ai “cari inganni”, sia verso la natura e la
forza malefica del fato, che ignoto e nascosto domina l’universo avendo come
fine il male. Anche la percezione dell’infinita
vanità del tutto, che in precedenza generava la noia, ora suscita un
atteggiamento combattivo di superiorità sprezzante.
La tensione eroica, come è tipico dell'ultimo Leopardi, diventa tensione
stilistica. La poesia ha una struttura metrica molto rigorosa. Si possono
distinguere tre parti di 5 versi ciascuna, con lo stesso schema metrico: un settenario
di apertura, due endecasillabi, ancora un settenario, endecasillabo di chiusura.
Il verso finale è fuori dallo schema come nota in sé conclusa e autonoma, e ciò
dà singolare potenza alla perentorietà della formula. Ognuna delle tre Parti è
aperta dalla ripetizione dello stesso motivo, l’invito a fermarsi, abbandonando
ogni speranza, con gli imperativi ripetuti in modo martellante, quasi ossessivo.
Questa struttura architettonicamente rigorosa in realtà contiene forti
tensioni. Colpisce Innanzitutto l'andamento spezzato del discorso poetico: si
succedono una serie di proposizioni brevissime, a volte composte da una parola
sola, (es.: perì) in gran parte autonome, senza legami sintattici né di subordinazione
né di coordinazione. Di conseguenza i versi sono rotti da continue pause (11
molto forti, segnate dal punto fermo, di cui 9 all'interno del verso. La
spezzatura del discorso è data anche dai numerosi enjambement, anch'essi molto
forti.
Il lessico è spoglio e essenziale, con rari aggettivi; due spiccano per l’allitterazione e l’assonanza: estremo/eterno in opposizione per il
significato; altri due, brutto/ascoso caratterizzano il malvagio potere che domina
il mondo e sono messi in rilievo rispettivamente dalla rima brutto/tutto e dalle pause collocate
prima e dopo; l'ultimo, infinito con
la sua lunghezza evidenzia la vanità del tutto. L’essenzialità è data dal fatto
che il discorso, per la rarità degli aggettivi, è costituito essenzialmente da
verbi e sostantivi, con netta prevalenza dei secondi. Tutti i nomi sono
concettualmente densi e ricchi di espressività: si nota l’enorme differenza dai
canti pisano-recanatesi. La critica crociana ha privilegiato i cosiddetti “idilli” perché solo in
essi ci sarebbe la poesia, svalutando questa parte dell'opera leopardiana.
In realtà, se si esaminano i testi senza pregiudizi nelle loro componenti tematiche
e stilistiche, emerge come si tratti non di inaridimento dell'ispirazione, ma
di una poesia totalmente nuova, diversa da quella delle fasi precedenti, ma non
inferiore.
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