Analisi del
testo
La prima
strofa insiste sull’opposizione deserto / ginestra aridità / profumo; il
paesaggio è decisamente anti idillico e si specifica in tre quadri 1) il “formidabil
monte”, concretizza l’immagine della
potenza distruttiva della natura; “le erme contrade” intorno a Roma, immagine
di desolazione e abbandono che richiama l’azione corrosiva del tempo e il
perire irrimediabile di tutte le cose; le “ceneri infeconde” e l’empia tratta
lava immagine di morte che rendono oggettivo il destino delle creature.
La ginestra
invece è così connotata: contenta dei deserti, li abbellisce; è sempre compagna
di afflitte fortune; è gentile, in opposizione alla spietata minaccia del
vulcano; commisera i danni altrui, consola la desolazione del deserto con il
suo profumo. La ginestra assume quindi un denso valore simbolico: come indicano
gli attributi elencati, rappresenta essenzialmente la pietà verso la sofferenza
degli esseri, perseguitati dalla natura. È possibile scorgere una segreta
identificazione tra Leopardi e la ginestra (li accomuna anche il connotato
della solitudine). Nel fiore il poeta proietta soprattutto la sua pietà per le
vittime della natura; viene così anticipato sin dalla prima strofa, nel simbolo
del fiore, il motivo della solidarietà fra gli uomini, che sarà proposto in
forma argomentativa più avanti. Ma c’è ancora un altro terreno di
identificazione tra il fiore e il poeta. La ginestra rappresenta la vita che
resiste a ogni costo al deserto, alla potenza devastante della natura; nel
fiore si proietta perciò anche quell’atteggiamento coraggioso, non rassegnato
di opposizione e di sfida alla natura nemica, che caratterizza l’ultimo
Leopardi.
Nell’ultima
parte della strofa si ha un passaggio brusco dal motivo lirico a quello
polemico: “A queste Piagge …” con uno stacco forte e netto.
La polemica
antireligiosa occupa la seconda e la
terza strofa. Il ritorno di concezioni religiose e spiritualiste è sintomo di
vigliaccheria, conformismo, interesse e opportunismo. A questi atteggiamenti
che ritiene vili e spregevoli, contrappone la propria figura eroica e solitaria,
con un atteggiamento combattivo e un orgoglio della propria nobiltà spirituale
che sono propri delle opere di quest’ultimo periodo.
Nella terza
strofa il poeta definisce la vera nobiltà spirituale, che consiste nel guardare
coraggiosamente in faccia il destino comune e nel dire il vero sulla condizione
infelice ed effimera dell’uomo, mostrandosi forte nel soffrire e fraternamente
solidale con gli altri uomini. A questo punto si colloca una svolta
fondamentale nel pensiero leopardiano. Nelle precedenti opere in cui
polemizzava contro l’ottimismo progressista dei suoi tempi, Leopardi si
limitava a posizioni critiche negative distruggendo i miti ingannevoli degli
avversari, rivelando il desolato vero. Qui invece propone con vigore una parte
costruttiva, una sua alternativa alle idee che combatte. Il pessimismo assoluto
non induce Leopardi alla rassegnazione e all’inerzia di fronte alla potenza
ostile della natura, né all’indifferenza verso i mali dell’umanità: il suo è un
pessimismo combattivo ed eroico, ma anche aperto alla solidarietà verso gli
altri uomini. In alcuni scritti precedenti Leopardi negava che il cosiddetto
progresso potesse assicurare sia la felicità, sia la giustizia; le stesse leggi
naturali prescrivono che trionfi sempre, in ogni forma di governo, la forza e
l’iniquità sulla virtù e la giustizia. Nella Ginestra il poeta continua ad escludere la felicità, ma afferma la
possibilità di un progresso che assicuri una società più giusta con rapporti
più umani tra gli uomini. Alla falsa idea di progresso diffuso dalle ideologie
ottimistiche del suo tempo, che consisteva nel mito di una nuova età dell’oro
garantita dalle riforme politiche delle conquiste tecnologiche, che avrebbero
assicurato la pace, l’abbondanza dei beni materiali e il dominio sulla natura,
contrappone quello che per lui è il progresso autentico di tipo civile e
morale. Questo tipo di progresso non si fonda su un’ingannevole ottimismo, ma
proprio sul pessimismo, sulla lucida consapevolezza della tragica condizione
dell’umanità. La coscienza dell’infelicità e miseria umana spingerebbe gli
uomini a coalizzarsi tra di loro contro la comune nemica, portando alla
solidarietà reciproca e alla fraternità. Questa società più giusta e civile
avrebbe un solido fondamento oggettivo in un bisogno reale degli uomini, quello
di salvaguardare la propria sopravvivenza; tale progresso non assicurerebbe
affatto agli uomini la felicità, che è impossibile, ma garantirebbe una società
più giusta e civile, in cui gli uomini non sarebbero più aggressivi gli uni
contro gli altri come belve. Non ci sarà dunque l’infelicità aggiunta che nasce dall’ostilità degli
altri uomini, anzi l’uomo sarà soccorso e confortato dai suoi simili quando la
natura malvagia si accorrerà contro di lui. Compito dell’intellettuale è dunque
diffondere la consapevolezza del vero, indicando il vero nemico contro cui
combattere. Il poeta ha compiuto un generoso sforzo per volgere in positivo il
suo pensiero, per fondare sulla base del suo pessimismo un’idea non illusoria di progresso e di civiltà.
La quarta
strofa ha uno stacco netto dalla precedente: si apre con uno scorcio
paesaggistico, lo stesso della prima strofa, individuato da un colore che evoca
immagini luttuose. Qui è presente anche la figura del poeta; non ci sono più i
filtri che comparivano ad esempio in “A Silvia”: L’io è immerso nella realtà
esterna, non la sfugge più, ma la affronta eroicamente. È una realtà scabra,
orrida, funebre, non più trasfigurata da alcuna illusione, ma rappresenta in
tutta la sua tragica terribilità la vera condizione dell’uomo. Da questo
particolare risalta la poetica nuova, non più idillica dell’ultimo Leopardi,
che vuol fare poesia non più con il caro
immaginar ma interamente con il vero.
La
prospettiva si allarga poi alla volta stellata, che non evoca più la memoria
delle favole infantili, ma una vasta meditazione sulla nullità della terra e dell’uomo
nell’universo. Non è più l’infinito dell’immaginazione, ma l’infinito del vero.
Il ritorno
polemico porta a due atteggiamenti entrambi presenti e strettamente uniti: il
riso per la stoltezza e la pietà per le sofferenze dell’umanità.
La quinta
strofa riprende il motivo della prima, la potenza distruttiva della natura.
Nella sesta
è centrale il motivo del tempo, il contrasto tra la variabilità del tempo umano
e l’immobilità di quello della natura. Mentre il tempo umano scorre vario,
trasformando incessantemente le cose, la natura maligna incombe immutata, affermando
la sua minaccia. La natura ignora i ritmi del tempo umano, con la sua eterna
minaccia.
Nella
conclusione il motivo è esposto in forma riflessiva: la natura sta “ognor verde”
mentre cadono i regni, passano i popoli e linguaggi. Una delle sentenze
definitive, concise e lapidarie tipiche del poeta chiude le sue argomentazioni
“l’uom d’eternità s’arroga il vanto” in cui risuonano insieme scherno e
commiserazione.
Nell’ultima
strofa, in rispondenza circolare con la prima, ritorna in primo piano la
ginestra. Del fiore viene richiamato il significato simbolico, la pietà per la
desolata condizione delle creature; tuttavia in seguito acquista nuovi
significati: la ginestra diviene un modello di comportamento nobile ed eroico
per l’uomo. La fragile pianticella dovrà inevitabilmente piegare il capo
dinnanzi all’onnipotenza della natura distruttrice, ma questa sconfitta non
cancella la sua dignità: la ginestra non ha mai piegato codardamente il capo a
supplicare l’oppressore, né l’ha diretto con folle orgoglio per eguagliarsi nel
cielo, né mai ha voluto imporre il suo dominio sulle altre creature. Nella
ginestra si proietta dunque l’immagine ideale della nobiltà dell’uomo, che il
poeta aveva delineato nella terza strofa.
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