domenica 30 settembre 2018

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia - Leopardi



Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

Composto tra l'ottobre del 1829 e l’aprile del 1830, fu pubblicato per la prima volta  nell'edizione dei Canti del 1831 (pur essendo l'ultimo dei canti recanatesi del 29-30 per cronologia di composizione, in quella edizione e nella successiva napoletana del 35, fu collocato prima della Quiete e del Sabato).
L’idea del canto fu suggerita a L.  da un articolo del Journal des savants (1826), da cui viene a sapere che i Pastori dell'Asia centrale trascorrevano le notti seduti su una pietra guardando la luna e improvvisando parole tristissime con musiche altrettanto tristi.

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Il poeta qui non parla in prima persona: il canto è messo in bocca a un uomo  primitivo, semplice e ingenuo. Nella prima fase del suo pensiero (pessimismo storico) Leopardi riteneva i primitivi più vicini alla natura, inconsapevoli dell’ “acerbo vero”, fanciulleschi e fantasiosi, quindi più felici dell'uomo moderno. Qui invece il pastore è filosofo come gli uomini civilizzati e sente fortemente la propria infelicità e quella universale: è l'indizio più chiaro del passaggio al pessimismo cosmico, che concepisce l’infelicità come propria dell'uomo di tutti i tempi, luoghi e condizioni.
 Il canto si distingue nettamente dagli altri grandi idilli (cosiddetti) perché non si fonda sulla memoria, sul desiderio del “caro immaginar” e sull'espressione dei sentimenti; è invece una lucida e  ferma riflessione che, partendo da interrogativi elementari,  coinvolge grandi problemi metafisici: è quindi poesia completamente filosofica, fondata sul vero. Il linguaggio perciò anche se presenta  essenzialità e purezza proprie di questo periodo della poesia leopardiana, non ha  il tono affettuoso che nasce dall'illusione.
 Anche il paesaggio è diverso:  non è quello idillico e familiare dell'immaginazione giovanile, recuperato dalla memoria, ma è un paesaggio astratto. continua la funzione tipicamente leopardiana dello spazio sconfinato e del tempo infinito; non è però un infinito creato dall'immaginazione: è invece contemplato dalla ragione; nella contemplazione non c’è dunque riscatto, naufragare della coscienza:  la coscienza resta vigile, è sempre presente e rimane in essa la percezione della sofferenza e della mancanza di senso dell'universo. Per queste caratteristiche il Canto notturno, chiudendo la stagione dei “grandi idilli”, fa già presentire la stagione successiva della poesia leopardiana, quella del Ciclo di Aspasia, una poesia nuda e severa, di puro pensiero.

Silenziosa: l'attributo sembra esprimere la consapevolezza del pastore che il suo interrogare resterà senza risposte.
L’umanizzazione della luna si può rilevare in più di una scelta lessicale,  richiamando anche il ruolo di divinità attribuito alla luna dalla mitologia classica.