mercoledì 10 ottobre 2018

Leopardi - A sé stesso - analisi del testo


 Leopardi - A sé stesso - analisi del testo

Fu composto probabilmente nel 1835 e pubblicato nell'edizione dei Canti dello stesso anno. L’occasione esterna fu probabilmente  la delusione a cui andò incontro l'amore per Fanny Targioni Tozzetti, la scoperta della vera realtà della donna amata, che negava l'immagine che il poeta se ne era fatta, disinganno che fu analizzato in Aspasia.

Metro endecasillabi e settenari con rime liberamente ricorrenti

Il componimento conclude il ciclo di Aspasia. Si afferma la scomparsa dell'inganno estremo, l'amore, che era stato cantato nel suo momento culminante, nel Pensiero dominante (componimento nel quale il poeta aveva esaltato la passione) e in Amore e morte. La poesia segna perciò il distacco definitivo dalla fase giovanile dell'illusione, ancora recuperata attraverso la memoria nei Canti pisano - recanatesi del 28-30.  è spento perfino il desiderio dei “cari inganni”. La negazione dell'illusione è ferma e perentoria; di fronte al vero tuttavia non c'è più un atteggiamento contemplativo: come è proprio di questa fase, compare un atteggiamento agonistico ed eroico, che si esprime nel disprezzo sia verso quel se stesso che ha ceduto ancora ai “cari inganni”, sia verso la natura e la forza malefica del fato, che ignoto e nascosto domina l’universo avendo come fine il male. Anche la percezione dell’infinita vanità del tutto, che in precedenza generava la noia, ora suscita un atteggiamento combattivo di superiorità sprezzante.

La tensione eroica, come è tipico dell'ultimo Leopardi, diventa tensione stilistica. La poesia ha una struttura metrica molto rigorosa. Si possono distinguere tre parti di 5 versi ciascuna, con lo stesso schema metrico: un settenario di apertura, due endecasillabi, ancora un settenario, endecasillabo di chiusura. Il verso finale è fuori dallo schema come nota in sé conclusa e autonoma, e ciò dà singolare potenza alla perentorietà della formula. Ognuna delle tre Parti è aperta dalla ripetizione dello stesso motivo, l’invito a fermarsi, abbandonando ogni speranza, con gli imperativi ripetuti in modo martellante, quasi ossessivo.
Questa struttura architettonicamente rigorosa in realtà contiene forti tensioni. Colpisce Innanzitutto l'andamento spezzato del discorso poetico: si succedono una serie di proposizioni brevissime, a volte composte da una parola sola, (es.: perì) in gran parte autonome, senza legami sintattici né di subordinazione né di coordinazione. Di conseguenza i versi sono rotti da continue pause (11 molto forti, segnate dal punto fermo, di cui 9 all'interno del verso. La spezzatura del discorso è data anche dai numerosi enjambement, anch'essi molto forti.
Il lessico è spoglio e essenziale, con rari aggettivi; due spiccano  per l’allitterazione e l’assonanza: estremo/eterno in opposizione per il significato; altri due, brutto/ascoso  caratterizzano il malvagio potere che domina il mondo e sono messi in rilievo rispettivamente dalla rima brutto/tutto e dalle pause collocate prima e dopo; l'ultimo, infinito con la sua lunghezza evidenzia la vanità del tutto. L’essenzialità è data dal fatto che il discorso, per la rarità degli aggettivi, è costituito essenzialmente da verbi e sostantivi, con netta prevalenza dei secondi. Tutti i nomi sono concettualmente densi e ricchi di espressività: si nota l’enorme differenza dai canti pisano-recanatesi. La critica crociana ha privilegiato i cosiddetti “idilli” perché solo in essi ci sarebbe la poesia, svalutando questa parte dell'opera leopardiana.
In realtà, se si esaminano i testi senza pregiudizi nelle loro componenti tematiche e stilistiche, emerge come si tratti non di inaridimento dell'ispirazione, ma di una poesia totalmente nuova, diversa da quella delle fasi precedenti, ma non inferiore.